2021



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Le fotografie

– Il loggiato del Chiostro Grande visto dall’andito; in evidenza il Redentore fra Giustizia e Misericordia di Bernardino Poccetti; foto di fra Franco M. Di Matteo, 2012.

– Il loggiato del chiostro dalla parte del convento e le lapidi delle tombe alla parete, foto di P.I.M., 2006.

– La lapide sul pavimento di Pietro Semiani, deceduto il 15 marzo 1841, fotografia di P.I.M., 2016.

– L’autorizzazione della Delegazione di Governo del Quartiere di Santa Croce, 1851, foto di P.I.M.

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IL CHIOSTRO DEI MORTI
e le sepolture a lapide nell'Ottocento


Il Chiostro Grande della SS. Annunziata, la cui entrata è a sinistra del loggiato della chiesa, si chiama anche Chiostro dei Morti per una ragione evidente già alla prima occhiata.

All’interno, famosi e di gran finezza artistica sono innanzitutto i sepolcri di Guglielmo di Durfort († 1289) e di Chiarissimo Falconieri e, a seguire nell’andito i monumenti con i busti-memoria di alcuni rappresentanti dell’aristocrazia o dell’alta borghesia del granducato. Successivamente, sempre in ordine di tempo, si trovano le numerose tombe a muro o in terra nei loggiati o nell’andito, caratterizzate da una lapide poligonale a filo con la parete o il pavimento. Prima dell’alluvione del 1966 erano circa 700 (se non più), secondo un elenco d’archivio scritto nei primi del secolo; dopo il passaggio di acqua e fango e i restauri effettuati dalla Soprintendenza con a capo Guido Morozzi (1964-1973), il loro numero è stato ridotto.

Dette sepolture con lapide risalgono quasi tutte alla prima metà dell’Ottocento ed hanno una loro motivazione storica.

Infatti in questo periodo e in certe classi sociali fu forte desiderio di associare il proprio corpo alla SS. Annunziata. Ciò avvenne di certo per moto spontaneo dell’animo, ma anche per dei fattori di natura esterna, come il voler dimostrare ad esempio la devozione verso il santuario e schierarsi apertamente nella divisiva e annosa controversia delle sepolture nei luoghi sacri.

Nel medioevo e per diversi secoli in realtà il luogo privilegiato di inumazione dei fedeli defunti era stato l’interno della chiesa, dove con il tempo erano state scavate nel pavimento un buon numero di tombe “terragne” con i loro chiusini ornati dallo stemma di famiglia. Vi avevano riposato i resti dei del Giocondo, dei Concini, dei del Tovaglia, dei della Gherardesca, dei Guadagni – per citare qualche nobile casata –, oltre ai frati del convento e ai confratelli delle compagnie della SS. Annunziata, di San Sebastiano e dello Scalzo.
Altre sepolture, in numero minore, poi, erano state fatte nelle cappelle dei privati o di altre confraternite, come quella di Santa Barbara, o nel chiostrino dei Voti.

Nel Settecento, secolo razionale e eversivo, però le cose avevano preso un’altra piega. Essendo cresciuta la popolazione, ma non altrettanto la metratura delle chiese, fu posto dai governi illuminati il problema delle inumazioni al chiuso in rapporto all’igiene pubblica e alle malattie. La soluzione fu trovata dai granduchi lorenesi con il semplice e categorico divieto. All’Annunziata ebbe un effetto radicale: vennero tolti di chiesa i poveri resti, le lapidi dei chiusini e trasferiti in vari ambienti. Fu anche rifatto completamente il pavimento. I lavori ebbero luogo tra il 1783 e il 1795.

Le criticità delle rivoluzioni e delle guerre seguenti, con l’occupazione dei francesi, rimandò la questione ai primi dell’Ottocento e al Regno d’Etruria che, riprendendo in parte le vecchie usanze, consentì di seppellire i defunti nel chiostro grande perché luogo “aperto”, adatto alla tumulazione a sterro. La prima tomba che appare nell’elenco d’archivio fu quella Gaetano Gallier nell’agosto 1803; l’ultima di Michele Monin nel settembre 1851. Poco tempo dopo infatti la proibizione fu definitiva. Erano alle porte i difficili tempi del colera in Italia e a Firenze dove giunse nel 1854.

Di questo interessante periodo, tra le poche carte d'archivio, si trovano alcune note del padre Raffaello Tonini aiuto camarlingo degli anni ‘40 e inizio ‘50 del secolo. Riguardano soprattutto contabilità e adempimenti burocratici.
Le sepolture di quegli anni d’altronde avevano necessità di spazio, essendo il chiostro stato usato per tale scopo da decenni. Occorreva pertanto che in primis esistesse un posto libero nel muro o nel pavimento, si facesse la prenotazione e si sostenesse un costo per la manodopera e il materiale, anche solo per riutilizzare vecchie lapidi.
Seguiva il pagamento e una ricevuta il cui facsimile era:

«Io sottoscritto ho ricevuto dal signore N.N. lire centoquaranta per le spese occorse nella tumulazione, nel mio chiostro del convento, e Padri Serviti della SS. Annunziata di Firenze, del cadavere del fu signore N.N. (si ponga il nome, e cognome del defonto) nella qual somma è compresa il cartello di marmo da incidervi l’iscrizione lapidaria, a condizione però, che la dicitura dell’iscrizione non siano più di trecento lettere, a me detto in contanti, dico Lire 140. Per il camarlingo assente fr. Raffaello Tonini aiuto».

Le sepolture poi dovevano avere l’autorizzazione dei frati:

«Permetto, per quanto aspetta a me sottoscritto, che sia interrato nel mio chiostro de’ Padri Serviti della SS. Annunziata di Firenze il cadavere del fu (si nomini il nome, e cognome del defonto) passato agli eterni riposi di recente.
Fr. Raffaello Tonini aiuto camarlingo.
N.B. La spesa è di Lire 140 per i grandi, ma per quelli di stola bianca [= uno dei diritti di pagamento di vari servizi liturgici, come l’elemosina della messa, il suono delle campane, etc. determinati dalle tariffe proprie] Lire 100. Non si potrà ricevere il cadavere, senza avere il permesso dal governo di doverlo far tumulare)».

Il placet delle autorità civili era concesso dalla Delegazione di Governo del Quartiere di Santa Croce, come si può vedere nella foto a lato. In quella riportata è scritto il nome di Leopoldo Baldasseroni e la data è il 26 novembre 1851. La firma frettolosa è illeggibile.

Paola Ircani Menichini, 6 febbraio 2021.
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