Theophil Passavant teologo di Basilea
e la Misericordia di Firenze

Theophil Passavant (Ginevra 1787 - Basilea 1864 ) fu un teologo protestante svizzero, figlio di Hans Franz Passavant, fondatore della banca omonima, e di Jeanne Marie Perrette Martin. Impiegato dapprima negli affari paterni, nel 1815 volle intraprendere la carriera ecclesiastica diventando studente di teologia a Basilea. Nel 1830 nella città fu parroco della chiesa di San Giacomo dove, tra il 1830 e il 1832 fondò la “Verein für Sonntagssäle”, l’Associazione per le Sale della domenica, con il fine dell’intrattenimento e svago di operai, apprendisti e ragazzi.
Nel 1837 operò nel comitato di Basilea per gli emigranti di Le Havre. Nel 1841 si dimise dall’incarico di parroco e intraprese numerosi viaggi, anche in Italia. Nel libro Aus Venedig (da Venezia), al capitolo XX, scrisse in modo raffinato e romantico sulla nascita della Misericordia di Firenze e fece anche un riferimento alla SS. Annunziata.
Iniziò il capitolo con i versi (tradotti):

“Uno sguardo sull’eternità
Ha spezzato dolcemente i tempi bui,
con un raggio d’amore leggero e coraggioso.
Si vide guidare il cieco,
guarire gli ammalati,
scorrere le lacrime senza tormento.

Si videro le calde lacrime
trasfigurarsi presto in consolazione,
dove c’era a stento una vita in Dio;
ristoreranno come consolazione
dove, devota, sulla bocca e negli sguardi,
la sua vita risplende, pura e vera!

[Passavant si trova a Venezia]
Oggi abbiamo superato San Rocco, San Servolo, San Lazzaro e le lagune delimitate dal lungo e stretto lido e torniamo al nostro albergo; poi alla noiosa table d’hôtel, oggi solo in via eccezionale, e che nessun maestro di casa possa guardarci con occhi ostili, perché è questo che fa male. È ben vero che chi mi vede vivere nella sua casa, sotto il suo tetto, può vedermi bene anche alla sua tavola.
Ma ora è sceso il buio, e nessuno di noi desidera uscire di nuovo a quest’ora della notte per andare in quel salotto colorato, Piazza San Marco, per quanto gloriosa possa essere; o verso uno di quegli altri cinque grandi saloni della città dell’isola che si chiamano teatri.
La piazza di San Marco è anche teatro, già e da diversi secoli più luccicante e gioiosa, ma anche più seria e tragica, perché lo sono tutti i palchi dell’odierno mondo del piacere.
In mezzo a Venezia a quest’ora non si vede più nulla della città dei dogi; i suoi stretti canali neri, le sue lagune che invecchiano, non possono trattenerci entro le loro mura; ci spostiamo in una provincia d’Italia in cui abbiamo visto e sentito anche tanta bellezza e bontà; e da lì, nella nostra stanzetta, sentiamo qualcosa la cui intimità ci ricorda le tranquille sere d’inverno nella nostra cara patria.

Dice una vecchia cronaca: nell’anno 1240, nell’epoca in cui la prospera Firenze era così ricca con le sue numerose fabbriche di ogni genere di lana, che anno dopo anno producevano circa venti o trenta milioni di bellissimi fiorini d’oro alla felice città – vi erano anche altri rami di attività, molteplici e di brillante resa –, ed essa brulicava per questo, specie in certi luoghi, di scagnozzi, portatori, facchini; facevano il lavoro leggero o pesante senza preoccupazioni; ogni giorno aveva il suo sudore e ogni ora la sua ricompensa.
Così sulla piazza grande di San Giovanni erano soliti stare settanta o ottanta facchini; non c’era ancora la cattedrale, né il bel campanile di Giotto, né la gloriosa cupola di Brunelleschi; ma il bel battistero vi stava già da centocinquanta anni, in giovane età di fresco e modesto splendore solo con Santa Reparata, la quale, nel 1296, scomparve di fronte alla nuova cattedrale.
Sulla piazza quegli uomini aspettavano di essere desiderati dai fabbricanti e nei magazzini; quando il tempo era brutto, come non di rado avveniva a Firenze, si incontravano in una specie di grotta vinicola presso l’antica torre del Guardamorto, dove si conservavano i morti diciotto ore prima della sepoltura; bevevano, cantavano e facevano i loro giochi rumorosi, e probabilmente anche in mezzo, cosa che raramente accadeva senza maledire.
I morti non sentivano; i vivi ci erano abituati.

Uno di loro, Luca Borsi, che andava avanti negli anni, non amava queste cose; le maledizioni, i giochi e le anime dei facchini, l’eterna dannazione nell’aldilà, tutto ciò suscitava in lui molti e seri pensieri.
Una volta si alzò – non mancava di una certa reputazione e anche di coraggio - e suggerì ai suoi colleghi che d’ora in poi avrebbero messo una crazia (otto centesimi) in una scatoletta per ogni maledizione che sarebbe uscita dalla loro bocca.
Questo ebbe senso per gli uomini, ed ecco, dopo qualche tempo c’era una piccola somma nella scatola, poiché una vecchia, cattiva abitudine non si elimina così facilmente.
Ora, su consiglio di Borsi, con quei soldi furono acquistate sei barelle, in quanto aveva dato loro l’idea di dividersi, sette o dieci per ogni giorno, passare nei diversi quartieri della città e raccogliere i poveri ammalati e i feriti sulle barelle e portarli agli ospedali, e infine, quando morivano, per condurli alla tomba.
Tutto ciò gli uomini rozzi accettarono volentieri; avrebbero dovuto, a turno, dalla somma che continuava a giungere, ricevere ciascuno un certo numero di crazie; sì, promettevano anche, dove era necessario, e di non maledire, senza ricevere ricompensa per quei servizi.
Così fecero fedelmente per diversi anni; i cittadini si meravigliavano e si rallegravano. Nelle loro peregrinazioni venivano offerti doni in denaro sempre più grandi; ma si erano impegnati con il caro Borsi a non accettare nulla per i loro servizi di volontariato; il vecchio riconosceva loro, a quanto pare, una ricompensa ancora migliore.

Luca Borsi morì; fu una tristezza. Allora uno di quei facchini osò impossessarsi di un quadro di Cristo in croce, e il 3 gennaio, giorno di Santo Isacco, collocò il quadro presso il battistero, con una scatola e la scritta: Prego per l’elemosina per i poveri ammalati e i bisognosi della città. Il compito era di utilizzare questo denaro per trovare il posto per un oratorio di preghiera dove potessero riunirsi per i servizi misericodiosi e non senza servizi di culto.
Si erano capiti, e la sera stessa la scatola dell’obolo dei tanti felici donatori non poteva più contenere altro. I facchini usarono questo denaro per acquistare le stanze sopra la cantina dove si erano precedentemente incontrati.

Erano i giorni in cui la peste imperversava frequentemente per l’Italia, devastando le città più belle e lasciandole a sospirare di disperazione.
I fratelli della misericordia, come furono presto chiamati quei valorosi facchini, si moltiplicarono nel bisogno e non considerarono la loro dura vita per il bene dei vivi e dei morti.
Nel 1325 le campane della chiesa smisero di suonare: da loro non si leggevano più i numeri dei morti, per non spaventare i tanti malati. Nel 1340 il bilancio delle vittime nella sola città fu di 15.000 individui. La peste ricomparve nel 1347; e nel 1348 si era diffusa in molti paesi d’Europa; Firenze e i suoi incantevoli dintorni persero circa i tre quinti della loro popolazione.
La bella città contava allora 150.000 abitanti. È in quell’anno sfortunato che il celebre Boccaccio (1313-1375) trasferì la sua bella e allegra compagnia, con i suoi cento racconti, presso i suoi beni, a Certaldo.
Lo ‘scheletro’, condotto dall’assassino fin dall’inizio attraverso capanne, case e palazzi, su tutte le piazze, a tutti gli angoli della città, festeggiò in quel momento i suoi giorni più belli.
I poveri Fiorentini credevano che in quei giorni fosse cosa buona la distrazione della mente, dei sensi; piacere e gioia, scherzi e canti, sarebbero stati una cura contro la peste per la quale non c’era rimedio, nessun medico, nessun soccorritore, o aiuto.
Così la gravità della morte fu profanata da ogni sorta di allegria, dentro e fuori; le case, deserte dai vivi e dai cadaveri, erano aperte alla baldoria; tutti i viveri furono consumati nelle risate, e a destra e a sinistra, sentivano solo attraverso il fetore dei cadaveri che un conoscente, un amico, un parente, giaceva abbandonato nel campo di sterminio.
Il nemico ha gioito per una doppia vittoria: la morte della carne e la morte dell’anima. È ancora il suo gioco noioso di oggi, lasciare che lacrime di dolore, anche di santo dolore, in carne e sangue, sabbia e ninnoli, si asciughino presto, molto presto.

A Venezia l’angelo strangolatore imperversò per sei mesi e, si dice, travolse metà dei membri del gran consiglio.
A Firenze ogni giorno morivano 600 persone. I fedeli, negli instancabili servizi dei cari fratelli della Misericordia, rendevano inclini sempre più a loro il cuore dei sopravvissuti; alla loro società furono lasciati in eredità considerevoli legati e gradatamente fu loro affidata l’amministrazione di molte opere pie.
Nel 1363 il flagello penetrò nuovamente; undici anni dopo tornò ancora. Nel 1383, per tre mesi, caddero ogni giorno 400 vittime; nell’anno 1400 c’erano stati fino a 30.000 morti. Negli anni 1411, 1417, 1422, 1423 il mostro nero riapparve con la vecchia rabbia, diffondendo tutti i suoi terrori, i suoi cadaveri, in tutte le direzioni, e – lo sapeva bene Dio Onnipotente, giudice di tutto il mondo.

Intanto i doni e i beni della Misericordia erano talmente aumentati all’anno 1425 che il governanti se ne accorsero; vollero utilizzare parte di questa nuova ricchezza per altri pii scopi, si guardarono intorno, l’afferrarono, si sbarazzarono di questo e di quello, e la confraternita si vide ben presto unita ad altre istituzioni – forse negli anni vi furono in essa abusi individuali o generali nell’amministrazione del servizio prestato? Certo, la cronaca non dice nulla di questo; forse non dice tutto –. Comunque sia, questa riforma non avrebbe portato buoni frutti. Ci sono molti Noli me tangere! – Non mi toccare! – nel mondo.
Quindi, una volta mescolato con altri elementi un po’ a loro estranei, si raffreddò lo zelo dei fratelli; la loro attività un tempo così vigorosa e imparziale, fu gradualmente, e specialmente in alcuni casi, gravemente omessa; e così si decise di restituire loro il precedente libero arbitrio. Il 13 gennaio 1475, dice una cronaca! In quel tempo fu trovato morto per strada un povero uomo comune, ed era passata l’ora in cui avrebbe dovuto essere sepolto; ma un uomo solleva il cadavere sulle spalle, vi fa gettare un velo e lo porta davanti al palazzo del governo; meraviglia del gonfaloniere; e chiede con rabbia: che cos’è?
La risposta è aspra; l’uomo lascia il cadavere e se ne va.

L’impatto agì in profondità; il gonfaloniere colse l’occasione per riproporre caldamente ai cittadini la Misericordia e i suoi indispensabili servizi. Una nuova società – la nuova misericordia – nasce con decreto governativo con nuove regole e ordinamenti; e anche di redditi e di sostentamento furono generosamente provvisti. Fu nel 1576 che i fratelli, dall’altrimenti indegno Medici, Francesco I, marito della veneziana Bianca Capello, ricevettero i locali più confortevoli che ancora oggi hanno sulla piazza della cattedrale, ricchi di iscrizioni e dipinti, segni di generale simpatia e ringraziamento da parte dei cittadini e dello Stato; una tranquilla casa di preghiera in mezzo alla folla, decorata esternamente con due piccole statue di Niccolò Pisano e sculture di stile gotico.

La nuova misericordia trovò presto e frequentemente occasioni per dimostrarsi fedele erede della vecchia; la peste si ripresentò nel 1495, ovvero un nuovo morbo, come si crede, giunse a Napoli dall’America appena scoperta, e si diffuse per mezzo degli eserciti stranieri soprattutto nell’Italia povera e lacerata; era l’amaro salario del peccato.
In quell’anno infelice, il 1527, quando la colpa di Clemente VII portò a Roma una miseria particolarmente grande, entrambe le città, Firenze e Roma, furono gravemente afflitte dalla nuova peste; gli eserciti stranieri, senza alcuna disciplina né briglia, la portavano con loro o aggravavano il male; nel corso di sessant’anni 60.000 contafiati morirono nella sola Firenze.
Passò un secolo: nel 1630 nuovo terrore e nuovo giudizio; la repubblica vide la città di San Marco e le sue belle province perdere più di un quinto dei loro figli; nel 1633 si rivide a Firenze e in diverse città della Toscana l’angelo strangolatore stendere le sue nere ali su tutto il paese che tremava e sanguinava.
Come presi dal misterioso presentimento, che d’ora innanzi la mano del Signore avrebbe risparmiato la povera Italia così gravemente afflitta dall’antica piaga, i fratelli della Misericordia, in Firenze e tutt’intorno, si radunarono subito; numerosi sacerdoti li precedettero e li seguirono con i paramenti sacri; si recarono tutti in solenne processione, circondati da un’immensa folla di persone, cantando canti sacri e litanie per le strade, alla chiesa dell’Annunziata. Quei begli affreschi di Andrea del Sarto, dei suoi discepoli e amici, nel portico del tempio, attirarono quel giorno pochi sguardi; né lo desiderarono, ma si mantennero modesti e tranquilli. Dopo aver ringraziato Dio nel bel tempio, continuarono per tutti i quartieri della cara città, al suono di tutte le campane e alle forti grida di tutto il popolo; in ogni strada, da ogni finestra, si sentivano voci di ringraziamento e di giubilo: evviva la misericordia! viva la misericordia! ”.

Tradotto da Paola Ircani Menichini, 28 maggio 2022.
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