te prevenuto. Fu un uomo che seppe camminare a ritroso affondando il
cuore, assai più che lo sguardo e la mente, nella storia più o meno gioiosa di
tutti i secoli, per illuminare la via a quanti sentiva in cammino attorno a sè.
Fu un artista e apostolo capace di disegnare sopra il lontano schermo del
tempo i prossimi che amava, perchè vi si trovassero senza riconoscersi e
nella meditazione di se stessi concepissero un nobile pensiero.
Di questo Ellero abbiamo due prove evidenti. Da una parte il fatto che su
circa venticinque opere drammatiche, dieci – cioè la parte maggiore – fu-
rono ispirate dal Cristianesimo primitivo: l ’autore riuscì allora, come i mi-
gliori tra gli apologisti del suo tempo, a dimostrare che non vi era nulla
della pretesa contraddizione tra il Cristo della Fede e il Cristo della Storia,
tanto contrapposti dal Razionalismo contemporaneo; il popolo seppe che
la fede delle proprie madri era ancora quella ammirata nei martiri, con la
stessa forza e con le stesse insidie, con lo stesso oggetto e con la stessa ispi-
razione, e sarebbe stata ancora la fede dei proprii figli, eterna e immutabile.
E a Teatro recitò spiritualmente il Credo. Fu forse questa una delle
ragioni profonde di quel culto per la storia che ad Ellero non permise mai
alcuna trasposizione e, dove l’invenzione voleva la parte sua, lo costrinse
incessantemente a essere fedele allo spirito di tutte le epoche.
D’altra parte traspare questa ricerca della vita nella storia, da alcune
espressioni con cui l’Ellero si riferì a « Vita Nova ». « Mi parve, egli scrisse,
che quella tumultuosa vita di un Comune Italiano del duecento si compren-
desse meglio che mai in questi ultimi anni in cui essa si ripetè più vasta con
i suoi ideali di giustizia e, sia pure, con i suoi fervidi eccessi passionali ».
Chi da queste considerazioni volesse arguire un Ellero puramente dida-
scalico non coglierebbe certamente nel segno. La storia, è vero, fu raccolta
e rappresentata con fedeltà; ma fu anche, soprattutto, investita di vita: lo
scrittore la sentì urgere in sè come intimo « daimon » irresistibile, e la vita
di tutti gli spettatori vi si scoperse per qualche lato concentrata come in uno
specchio fedele. Non è forse questa rappresentazione dell’uomo vivente –
entro un contenuto, non importa se originale o mutuato dagli avvenimenti
storici – il sommo ideale di tutta l’arte ? Se l’opera di Giuseppe Ellero non
fu destinata a più alte valutazioni, non fu certo per mancanza di slancio
interiore. Le ragioni furono altre.
E pertanto, nessun danno al drammaturgo o all’artista da parte dell’apo-
logeta, dello storico, del moralista, del teologo, dell’apostolo, dell’educato-
re, ma solo la condanna e il superamento di quella formula insufficiente
che suona: « L’arte per se stessa ». Subentra invece l’altra formula più felice
e perfetta: « L’arte per la vita totale (intellettuale e morale) dello
spirito » . Se un’arte fu veramente vita – lasciò scritto Mons. Ellero – vita
intensa, vita totale, questa fu l’arte Cristiana.
I suoi scritti drammatici
Per i motivi e con lo spirito suddetti, il nostro Autore penetrò e descrisse
quelli che Egli amava definire « i secoli morti ». Li descrisse non solo in