GIUSEPPE ELLERO nei suoi drammi cristiani
[Siamo nel 1950] “Il venticinquesimo anniversario della morte di Giu-
seppe Ellero – forse il maggiore dei drammaturghi cristiani che onora rono
in questi ultimi decenni il Teatro Filodrammatico Italiano – sta per tra-
montare inosservato.
Eppure è certo che Mons. Giuseppe Ellero ha meritato per sé una memo-
ria pari almeno alla fama di cui furono circondate altre nobili figure di au-
tori drammatici, che allo sviluppo del nostro piccolo Teatro non poco con-
tribuirono con validi scritti, pensati e nati sotto cieli diversi, per un pubbli-
co di altre latitudini.
L’edizione completa delle sue opere, curata dal Seminario di Udine, che
raccoglie scritti di una genialità per nulla circoscritta alla drammaturgia e,
quanto a quest’ultima, tanto più rispettabili quanto dissoni dalle ampollo-
sità del tempo, è la testimonianza di una tempra vigorosa, signorilmente
grande, eccezionalmente profonda, esattamente informata, genuinamente
sacerdotale. Per questo siamo certi di non commettere un peccato di pre-
sunzione e di non cadere in esagerazioni a rievocarne, prima di tutto per
noi, la figura buona e sapiente.
L ’intuizione che lo ispirò
Se non si corresse il rischio di impoverire una definizione per volerla trop-
po condensare, l’azione di Giuseppe Ellero drammaturgo si potrebbe defi-
nire una ricerca della vita nella storia, per educare la vita con la
storia. Quando, ai suoi tempi migliori, Egli dovette presentare al pubblico
il suo bel poema drammatico « Attalo », confessò che in coscienza non sen-
tiva già di dover scegliere un tema lontano o vicino nel tempo, ma, sempre,
il bisogno di esprimere una intuizione che avendolo toccato intimamente,
rispecchiava anche in ciò che era morto, ciò che era ancora sem-
pre vivo. E si trattava in quei casi di un bisogno impellente, che doveva
assolutamente tradursi nello scritto.
Mi pare stia emergendo, qui, adeguatamente la nobile figura di questo
autore drammatico che ebbe la somma sventura di scrivere per un ambien-
Il teatro cattolico e i giovani
te prevenuto. Fu un uomo che seppe camminare a ritroso affondando il
cuore, assai più che lo sguardo e la mente, nella storia più o meno gioiosa di
tutti i secoli, per illuminare la via a quanti sentiva in cammino attorno a sè.
Fu un artista e apostolo capace di disegnare sopra il lontano schermo del
tempo i prossimi che amava, perchè vi si trovassero senza riconoscersi e
nella meditazione di se stessi concepissero un nobile pensiero.
Di questo Ellero abbiamo due prove evidenti. Da una parte il fatto che su
circa venticinque opere drammatiche, dieci – cioè la parte maggiore – fu-
rono ispirate dal Cristianesimo primitivo: l ’autore riuscì allora, come i mi-
gliori tra gli apologisti del suo tempo, a dimostrare che non vi era nulla
della pretesa contraddizione tra il Cristo della Fede e il Cristo della Storia,
tanto contrapposti dal Razionalismo contemporaneo; il popolo seppe che
la fede delle proprie madri era ancora quella ammirata nei martiri, con la
stessa forza e con le stesse insidie, con lo stesso oggetto e con la stessa ispi-
razione, e sarebbe stata ancora la fede dei proprii figli, eterna e immutabile.
E a Teatro recitò spiritualmente il Credo. Fu forse questa una delle
ragioni profonde di quel culto per la storia che ad Ellero non permise mai
alcuna trasposizione e, dove l’invenzione voleva la parte sua, lo costrinse
incessantemente a essere fedele allo spirito di tutte le epoche.
D’altra parte traspare questa ricerca della vita nella storia, da alcune
espressioni con cui l’Ellero si riferì a « Vita Nova ». « Mi parve, egli scrisse,
che quella tumultuosa vita di un Comune Italiano del duecento si compren-
desse meglio che mai in questi ultimi anni in cui essa si ripetè più vasta con
i suoi ideali di giustizia e, sia pure, con i suoi fervidi eccessi passionali ».
Chi da queste considerazioni volesse arguire un Ellero puramente dida-
scalico non coglierebbe certamente nel segno. La storia, è vero, fu raccolta
e rappresentata con fedeltà; ma fu anche, soprattutto, investita di vita: lo
scrittore la sentì urgere in sè come intimo « daimon » irresistibile, e la vita
di tutti gli spettatori vi si scoperse per qualche lato concentrata come in uno
specchio fedele. Non è forse questa rappresentazione dell’uomo vivente –
entro un contenuto, non importa se originale o mutuato dagli avvenimenti
storici – il sommo ideale di tutta l’arte ? Se l’opera di Giuseppe Ellero non
fu destinata a più alte valutazioni, non fu certo per mancanza di slancio
interiore. Le ragioni furono altre.
E pertanto, nessun danno al drammaturgo o all’artista da parte dell’apo-
logeta, dello storico, del moralista, del teologo, dell’apostolo, dell’educato-
re, ma solo la condanna e il superamento di quella formula insufficiente
che suona: « L’arte per se stessa ». Subentra invece l’altra formula più felice
e perfetta: « L’arte per la vita totale (intellettuale e morale) dello
spirito » . Se un’arte fu veramente vita – lasciò scritto Mons. Ellero – vita
intensa, vita totale, questa fu l’arte Cristiana.
I suoi scritti drammatici
Per i motivi e con lo spirito suddetti, il nostro Autore penetrò e descrisse
quelli che Egli amava definire « i secoli morti ». Li descrisse non solo in
quel genere di produzione per le filodrammatiche, che è la parte più nota e
abbondante della sua opera e che gli procurò la maggiore notorietà, ma
anche in opere che destinò forse, in cuor suo, agli amatori e ai professioni-
sti, ancorchè non si facesse illusioni sulla fisionomia del suo tempo e dubi-
tasse quindi non essere accolto.
A parte il poema drammatico « Attalo » – che è anche un gioiello di lette-
ratura – tra le migliori opere elleriane sono le due per il teatro promiscuo: «
Salomé » e « La moglie di Pilato ». C’è tanta umanità e tanta drammaticità
in queste opere e insieme tanto calore comunicativo, tanta conoscen-
za e sfruttamento della psicologia, da potersene impegnare seriamente
qualsiasi complesso professionistico con la certezza di un successo, miglio-
re di quello che certe rappresentazioni e riesumazioni esotiche assicurano.
L’Ellero vi sa trattare nobilmente, ma con comprensione sicura e con sensi-
bilità artistica quanto sacerdotale, anche quel tema dell’amore umano di
cui troppe volte si fa scempio e che troppo sovente genera disgusto.
Quanto al genere filodrammatico, sette opere riguardano i tempi moder-
ni, tre il settecento, cinque il medioevo e il resto i primi secoli cristiani.
Alcune di queste opere sono atti unici ; la divisione in tre atti è la più trascu-
rata; la maggior parte si dividono in cinque atti per indulgere a quella visio-
ne classica che riempì Ellero; d’altronde i cinque atti erano sacri al teatro
filodrammatico del tempo ... Quello però che conta è che in questo genere
l’Ellero tocca i limiti dell’autentico capolavoro. Le cinque cognate della com-
media rustica « Il bottone » e gli impeti del grande astigiano nel « Segreta-
rio di Vittorio Alfieri », rivelano la tempra del commediografo di razza ,
capace di trasvolare dal tumulto giocondo all’ironia sferzante e alla tragi-
commedia , per riposarsi infine, con gran gioia segreta e con l’animo esila-
rato, nella Storia preferita. Allora la Rivoluzione Francese balenava per fino
nel lampeggiare nervoso della lama che il barbiere conduce sulla faccia del
nobile, perfidamente costretto, nonostante la disperazione di certe occhia-
tacce, all’impotenza.
Nè meno efficace è la interiorità dei « Lapsi », dove è difficile dire se si
senta meglio il disperdersi dell’anima nell’arsura del deserto o lo splendore
africano del sole sopra i cervelli che il traffico annebbia. Probabilmente l’
una e l’altra cosa: la corsa pazzesca dell’uomo materiale alla sabbia che ri-
luce e il richiamo del sole agli autentici chiarori del cielo.
In « Vita Nova » trasuda anche, in brevi passioni liriche, il cuore poetico
dell’Ellero. Del resto tutta l’opera elleriana si snoda caratteristicamente in
un continuo scintillìo d ’immagini, sì che in certi momenti si ha l’impres-
sione che stia per erompere fuori il volo lirico. In queste «scene fiorentine »
fu accusata da taluno una certa mancanza di unità, là dove l’unità era data
da un profondo tema ideale: il maturare del Comune Italico in mezzo al
turbinio caotico delle passioni. Qualcun altro vi sentì troppa storia ed eru-
dizione, quando non c’era che un fedele riflesso storic di passioni viventi.
« Il Dio Ignoto » anima la sua azione dalla profonda intuizione che ebbe
l’Ellero di quell’ambiente greco e specialmente ateniese in cui Paolo portò l
’annunzio dell’« Anastasis »: ambiente curioso, inquieto, malato d’intellet-
tualismo, espresso tutto nella domanda che martella insistentemente: Ti
kainos: Che c’è di nuovo?
E che dire del « Miracolo dell’Amore », la cui vitalità non è ancora spenta
dopo un cinquantennio di vigorosa e dignitosa vita nelle scene ?
Certo, sarebbe eccessivo non ammettere difetti in lui. Qualche suo verso
e qualche sua sequenza rievoca il fallimento del suo Discobulo che, « con
due lacrime negli occhi », ricade su se stesso, dopo lo sforzo, mentre il pub-
blico ride ... « Legnano » risente della fretta con cui fu scritto e troppo in-
dulge al romanticismo decadente. In « Pier della Vigna » lo sforzo per cre-
are caratteri tradisce se stesso e attenta all’azione; la compiacenza aduggia
sovente l ’Autore in svolgimenti secondari e in lavori di cesello distraenti,
come chiunque può constatare in « Aristo» nel « Dio Ignoto », nel « Mira-
colo dell ’amore »; una festa in preparazione rende monotono l’aprirsi, in-
sieme, di « Attalo », « Il « Miracolo dell’amore » e «La moglie di Pilato »·
Tutti difetti non indifferenti ... Ma Ellero rimane tuttavia un grande Au-
tore dell’ultimo Teatro Cattolico Italiano, forse il più grande in quel-
la schiera che ebbe inizio con P. Palumbo e Mons. Rosa alla metà del secolo
scorso, e rinvigorita dalla forte tempra di G. B. Lemoyne, all’inizio del no-
stro secolo, si chiudeva con Lui. Non commetteremo perciò il fallo di rite-
nerlo del tutto alieno dalle nuove esigenze per rifugiarci anche noi in un
repertorio straniero che bene spesso è inferiore e che molte volte non allet-
ta se non per un certo sapore di nuovo del tutto fittizio e già smesso nella
patria d’origine. Da noi c’è talora proprio l’incongruenza di prenderse-
la con i nostri vivi per tentare la risurrezione degli altrui morti ...
La sua attualità
Non pensiamo subito ai « cinque atti ». Purtroppo la scarsa cultura di
certi ambienti scambia facilmente i cinque atti con l’arte dell’Ellero e con-
danna questa in grazia di quelli.
Del resto Ellero ha pure i suoi brevi atti unici, la cui attualità oggi è evi-
dente e nel « Libro del Professore » i tanto cari tre atti a scena fissa. Eviden-
temente non è in questo che vogliamo indicare o escludere un’attualità elle-
riana, la quale non può dipendere da accidentalità esteriori, ma è soprat-
tutto legata a un contenuto, a una forma, a un metodo e a un impegno.
Questo scrittore friulano, che è andato appassionatamente in cerca del-
l’elemento istruttivo, e che anche quando faceva dell’istruzione scolastica
(poichè insegnava anche nel Seminario di Udine), non poteva fare a meno
dell’elemento drammatico, potrebbe dire molto oggi, in un tempo in cui è
necessario dare in forma ricreativa quella istruzione che, altrimen-
ti, è divenuta un peso. Il divertimento moderno purtroppo si disinteressa di
questa sete generale di sapere, perchè questa sete non è consapevole; esso
non dona nulla perchè gli uomini nulla domandano, fuor che divertirsi,
quasi che solo chi domanda fosse povero ... Dov’è, oggi, la « Biblia
pauperum » che faceva dell’arte medioevale, pittorica, plastica o dramma-
tica, una potenza tanto più ispirata quanto più si proponeva di attrarre per
insegnare ?
Ellero, benchè lontano dalla classica rappresentazione sacra, operò con
lo spirito di essa. Cerca una forma appropriata e piacevole, la curò, come
dicemmo, fino a rasentare talora l’eccesso, e scese verso il pubblico per
sollevare il pubblico alla visione cristiana da lui vissuta. Qui era ne-
cessario un metodo. II suo pubblico non aveva un’anima medioevale capa-
ce di entusiasmarsi della spiritualità e non voleva subodorare il didascalico
e il parenetico. Egli seppe darglielo senza farsene apparire. E glielo diede a
piene mani: e in questo fu tanto felice da imporsi come maestro, dal mo-
mento che Teatro Cattolico significa radicalmente Teatro educati-
vo.
Ma perchè poi questo assillo (sia stato o no consapevole) di stabilire una
comunione, uno scambio tra sè e il pubblico? Solo perchè questo è il pre-
supposto essenziale del successo drammatico? No, senza dubbio monsi-
gnor Ellero sentì l’impegno apostolico di una missione da condurre con i
mezzi che Dio gli aveva dati, e accanto al successo drammatico che pose
primo nel tempo, cercò il successo apostolico, che pose primo nel
fine. Inutile cercare nelle sue opere espressioni meno ordinate a questo
scopo; inutile dubitare se egli abbia cercato talora il compromesso tra arte e
morale: per lui un’arte non ordinata alla bontà era priva di senso, perchè il
Bene e il Bello non solo non sono in contrasto, ma vogliono l’intimo accor-
do.
Mettere altri fondamenti a una drammaturgia cattolica è un nonsenso e
un camminare verso il fallimento. Per questo motivo Mons. Ellero è effica-
cemente attuale e il ritorno del suo spirito in mezzo ai nostri autori e uomi-
ni di Teatro non potrà essere che di buon auspicio. Più che mai allora egli
potrà ripetere con verità la sua volontà di vivere: « Io vivo nella storia ».
Marco Bongioanni”
Su cortese concessione della signora Cinzia Bincoletto, catalogatrice presso la Bi-
blioteca del Museo della Bonifica di San Donà di Piave.
La foto di Giuseppe Ellero (Udine, Civici musei, Fototeca, da:
http://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/ellero-giuseppe-2/
Don Marco Bongioanni, salesiano, nacque nella provincia di Cuneo nell' ottobre del
1920 e morì a Roma nel febbraio 1990. Fu per anni direttore e curatore di pubblicazio-
ni salesiane dedicate al cinema e al teatro, e uno dei fautori dell' «Inter Mirifica» – il
decreto conciliare sulle comunicazioni sociali – poi giornalista e quindi direttore dell'
Istituto di Dramma Popolare di San Miniato.