Riportiamo da L’Ave Maria a Firenze (Un Santuario e la sua Città, 1976), raccolta di scritti del
p. Raffaele Taucci, osm (+ 1971), un articolo che ha insieme carattere storico e di devozione.
Vi aggiungiamo alcune foto e delle brevi note fra parentesi quadre [P.I.M.].
“Una preghiera tanto cara e tanto ripetuta da tutti,
non poteva non entrare nelle abitudini e negli usi della
vita fiorentina. Si diceva l’Ave Maria prima di incomin-
ciare il lavoro e le azioni principali della giornata; si
recitava al principio della Messa e delle Ore dell’Ufficio
Divino, e dai predicatori prima dell’esordio nelle predi-
che; si scriveva come motto sulle lettere e all’inizio dei
libri e dei manoscritti, e i poeti e gli scrittori di laude
come acrostico al principio dei loro versi; si dipingeva con arte nei vasi e
nelle ceramiche; si incideva nei sigilli, negli anelli, nelle medaglie e nelle
campane; i religiosi e le persone pie la ripetevano nel salutarsi; e insom-
ma erano tante le occasioni in cui si ritornava a questo saluto alla Madon-
na, che ci è impossibile di parlarne qui distintamente di tutte.
Negli scrittori fiorentini del tre e quattrocento non mancano frequenti
accenni a questi usi, e non solo fra quelli che scrivevano di cose religiose,
ma anche tra i profani più noti e più letti. Il Sacchetti [+ 1400], per esem-
pio, in una novella [XXXII] racconta del frate che, giungendo in pergamo,
dice l’Ave Maria; Luigi Pulci (+1484], nel Morgante [23, 42], parla del
romito che venendo saluta con Ave Maria; Lorenzino dei Medici [+ 1548],
nell’Aridosia, della monaca che si affaccia alla grata, dicendo Ave Maria;
e il Cellini [+ 1571], nella sua Vita [cap. XV, 1534], racconta di «Pompeo,
che soprastato che fu, del dire dua Ave Maria», si rivolse a lui con
«ischerno». E così in tanti altri luoghi.
Qualche volta, è vero, non era per devozione, che la ripetevano; ma
anche per l’abitudine e per l’inclinazione innata allo scherzo, che si è stati
sempre pronti a mettere in ogni cosa, anche nelle più serie e sante. Così ai
tempi delle grandi gelosie tra senesi e fiorentini, «questi, dice la cronaca
di Paolo Montuori [Montauri, Cronaca senese], i fiorentini, avevano fatto
lo insulto contra Lucca; e per i mali parlari de’ grandi fiorentini e piccoli,
I fiorentini e l’Ave Maria
cioè: Ave Maria gratia piena, aùto Lucca, anderemo a Siena. E per tutta
la Toscana, dov’era alcuni fiorentino, l’aveano scritto per tutto».
Ma quella volta lo scherzo non portò bene; perché, dopo la morte di
Castruccio, avendo contrattato col Duca di Milano di avere in dominio la
città di Lucca per duecento cinquanta mila fiorini d’oro, ed avendone già
pagati cento mila, quando si credevano sicuri di averla, andarono i pisani,
vi posero l’assedio, e non ebbero né Lucca, né tanto meno Siena.
Fra i tanti usi introdotti tra noi a riguardo dell’Ave Maria, ne noterò
uno, a cui difficilmente verrebbe fatto di pensare, se non venisse detto. Ed
è quello di inserire l’Ave Maria negli atti notarili, come formula rogatoria,
per dare agli atti maggior garanzia e autenticità.
Ne riporto qui qualcuno, in breve, come esempio. Nel 1302 un certo
Lotto di Bonamico, del popolo di S. Martino La Palma, facendo testamen-
to, richiese al notaro Simone Serdini, che per ossequio alla Madonna, e
per maggior sicurezza che le sue ultime volontà sarebbero state eseguite,
vi scrivesse l’Ave Maria; come infatti fece, e scrisse l’Ave Maria tutta
intera: Ave Maria, gratia piena, Dominus tecum, benedicta Tu in mulie-
ribus, et benedictus fructus ventris tui. Sancta Maria, ora pro nobis.
Nel 1302, a Firenze, l’Ave Maria si diceva cosi.
Lo stesso nel 1323 [stile fiorentino, 1324], monna Gasdia degli Adimari,
del popolo di S. Reparata, nel suo testamento lasciò scritto di voler essere
sepolta nella chiesa dei Servi, vestita dell’abito loro, espressamente di-
chiarando, in quell’atto, che nessun altro testamento o codicillo dovesse
tenersi per valido, se non vi fosse stato scritto per intero l’Ave Maria.
Ancora: nel 1339, monna Ubertina degli Ubertini di Prato, ma dimo-
rante in Firenze, lasciò per testamento, che si facesse, dopo la sua morte,
una tavola alla Madonna, da porsi sopra l’altare di una cappella, nella
Chiesa dei Servi in Prato, con la sua immagine, dipinta ai piedi della Ma-
donna; e dichiarò che negli atti, che il notaro avrebbe fatto per lei, vi aves-
se dovuto scrivere «queste venerande parole: Ave Maria ecc.». E questo
Cristoforo de Predis, sec. XV, Biblioteca Reale di Torino.
attesta il notaro
di averlo fatto,
«per la devozio-
ne che detta
testatrice aveva
verso la Vergine
gloriosa, come a
tutti era noto».
Quella devo-
zione che faceva
inserire le parole
dell’Ave Maria
nei testamenti,
come un prezio-
so retaggio per i
posteri, spingeva
altri a farne il tema dei loro discorsi, e materia di commenti devotissimi,
che ebbero una larga fioritura letteraria, in quei buoni secoli della nostra
lingua. Il «fedel Bernardo» di Chiaravalle [+ 1153], tanto accetto ai nostri,
fu colui che meglio di ogni altro seppe toccare questa corda devota della
pietà mariana, rimasta fino allora quasi nell’oblio; e trasse dietro a sé una
lunga sequela di predicatori, di verseggiatori, di trattatisti, che videro
nell’Ave Maria, una miniera inesplorata di ispirazione, di riferimenti, e di
simboli per esaltare la Madre di Dio. Ogni parola sembrò carica e gonfia
di un senso recondito ed arcano, che dilettava le anime pie e nutriva la
loro devozione. Tutto il pensiero cristiano sembrava convergere verso
l’Ave Maria.
Talvolta nello sforzo della ricerca, si dava corpo ad appigli insignificanti
e quasi puerili; ma il pensiero era sempre grande e bello. Il beato
Angelo eremita di Vallombrosa [forse dei Leonori, + 1530], in una omelia
sulla Madonna che inviò alla Signoria e al popolo fiorentino, prendeva le
tre gambette, con cui si forma la lettera in, che è la prima nel Nome di
Maria, per dire che «è composta di tre i, legati insieme, i quali dimostrano
che tutta la Trinità fu legata, cioè unita e d’accordo che Lei avesse a essere
la Madre di Dio». Il simbolo era ingenuo, ma il pensiero era grande: era
quello stesso che Dante espresse in quel verso: «Termine fisso d’eterno
consiglio» (Par. XXXIII, 3)”.
Raffaele M. Taucci, osm (+ 1971), raccolto da P.I.M., 4 aprile 2020.
Beato Angelico, Annunciazione, ca 1440-1450, San Marco, Firenze.